Lo stress come espressione della capacità di adattamento – seconda parte

Ricerca e scienza

di Francesco Senigagliesi, Osteopata, Assistente Scuola di Osteopatia AbeOS

La prima parte di questo articolo lo trovate qui: https://news.abeos.it/index.php/2020/04/16/lo-stress-come-espressione-della-capacita-di-adattamento-prima-parte/

Abbiamo già visto, nella teoria proposta da Selye, come sia estremamente difficile separare i concetti di stress e adattamento, in quanto espressioni dello stesso meccanismo. Lo stress, nella sua accezione positiva quale meccanismo di sopravvivenza, non potrebbe avere luogo senza una capacità di adattamento del corpo rispetto allo stressor. Nello specifico, Selye definisce l’adattamento come la capacità di ottenere il miglior risultato utilizzando la minor quantità possibile di sforzo. Ciò significa che un organismo in grado di adattarsi risponderà ad eventi potenzialmente stressanti in maniera più localizzata, attivando esclusivamente le strutture o funzioni strettamente necessarie alla risoluzione del problema. Al contrario, un individuo con una scarsa capacità di adattamento tenderà ad instaurare una risposta generalizzata e globale dei sistemi di difesa del corpo, consumando una quantità di energia superiore a quella necessaria. Tale processo tuttavia, è strettamente connesso all’esperienza individuale e al grado di esposizione a un determinato stressor, risultando quindi modificabile nel tempo. A dimostrazione di ciò, una delle differenze principali tra la fase acuta (fase di allarme) e quella subacuta/cronica (fase di resistenza) della sindrome GAS sta proprio nella differente localizzazione spaziale della risposta infiammatoria, che tende ad essere di natura sistemica nella prima fase per poi ridursi gradualmente al sito di lesione.

Il concetto di adattamento, in ogni caso, non appartiene limitatamente al campo della biologia e della medicina. Anzi, è interessante osservare come informazioni preziose possano derivare da punti di vista differenti, legati ad esempio al campo della matematica e della fisica.L’adattamento, infatti, assume ancor più valore alla luce della teoria della complessità propria dei sistemi complessi adattativi, di cui l’organismo umano ne rappresenta un esempio formidabile. Il sistema complesso si contraddistingue per una elevata possibilità di evolvere, adattarsi e migliorare, proprietà in grado di differenziare i sistemi biologici complessi da quelli tecnologici, definiti complicati.

“The measure of intelligence is the ability to change”

A. Einstein

Inoltre, i sistemi complessi, in seguito a lunghi periodi di stabilità, possono raggiungere un “livello critico” e alterare i propri meccanismi omeostatici a feedback negativo come conseguenza di cambiamenti cronici di lieve entità o di perturbazioni di intensità eccessiva (stressor). Un fenomeno di questo tipo presenta notevoli similitudini con quello descritto da Selye relativamente allo stress. In quest’ottica, l’adattamento potrebbe essere visto come una “capacità emergente” del sistema biologico, la quale si esplicherebbe attraverso cicli di feedback propri dei meccanismi omeostatici e allostatici. Ciò porterebbe ad identificare il concetto di adattamento con quello biologico di allostasi, definito come la capacità del sistema fisiologico di mantenere la propria stabilità attraverso il cambiamento, il quale rappresenta in conclusione il meccanismo su cui si basa la risposta organica allo stress.

Il frattale è un oggetto geometrico, spesso utilizzato come espressione dei sistemi complessi in natura

Come abbiamo già visto, ampliare la prospettiva ad altri campi oltre a quello biologico può rivelarsi estremamente interessante. Grazie al lavoro dell’epistemologo francese Canguilhem, è possibile trarre delle conclusioni relative al fenomeno dell’adattamento perfino attraverso l’osservazione da un punto di vista filosofico.

Mettere in campo il fenomeno dell’allostasi significa a tutti gli effetti parlare del livello di salute dell’individuo, in quanto strettamente legato ai parametri fisiologici omeostatici. Canguilhem, rifiutando la classica visione meccanicistica di una salute misurabile e oggettivabile, la descrive come l’abilità dell’individuo di adattarsi all’ambiente. La salute non è più un’entità fissa, quanto invece un concetto variabile a seconda dell’individuo e delle necessità funzionali imposte dalle diverse circostanze che si trova ad affrontare. Normale e patologico, quindi, sono tali solo rispetto all’ambiente specifico, e in un tale contesto la differenza tra salute e malattia non può che dipendere dalla capacità di adattamento del primo rispetto al secondo. Uno straordinario esempio del ruolo dell’adattamento individuale ai fini della salute può essere facilmente osservato in tutti quei pazienti con riscontri strumentali positivi (es. discopatia alla RM), i quali tuttavia non presentano alcuna sintomatologia associata.

In conclusione, il fascino e l’innovazione della teoria proposta da Canguilhem sta nel porre il singolo individuo come unico soggetto in grado di definire e modificare la propria salute, con il terapeuta che si limita a ricoprire il ruolo di “sostenitore” del processo di guarigione. Una visione di questo tipo definisce in maniera eccellente i principi e le modalità con cui agisce un osteopata, il quale non si focalizza sulle condizioni che affliggono il paziente ma, al contrario, mette quest’ultimo nella condizione ideale di ritrovare la propria salute (in assenza di patologie organiche!) e la corretta fisiologia dei vari organi e sistemi.

Ah! Piccola osservazione sul concetto di adattamento applicato al periodo che stiamo vivendo…

L’adattabilità biologica è una proprietà che non si applica esclusivamente all’uomo. Essa riguarda anche altri animali, fino a coinvolgere perfino organismi di dimensioni estremamente ridotte quali i virus. Uno degli aspetti principali che permette di classificare i microrganismi virali è quello del genoma e li differenzia in virus a DNA e a RNA. Quest’ultimi, a causa dell’informazione genetica ridotta, presentano un enzima particolarmente poco efficiente, responsabile della duplicazione del genoma virale. Si tratta della RNA polimerasi, che a differenza di quanto accade con i virus a DNA, tende a controllare solo in maniera parziale la formazione del nuovo filamento.

La capacità limitata dei virus a RNA di riparare gli errori di trascrizione durante il processo di replicazione determina un tasso elevato di mutazioni, il quale fornisce inevitabilmente un’ottima dose di variabilità genetica. La teoria dell’evoluzione di Darwin assume, in questo caso, un aspetto estremamente concreto e ci permette di comprendere come tale variabilità determini maggiori cambiamenti adattativi, associati ad un’elevata possibilità di evolvere all’interno di organismi diversi, in tempi estremamente rapidi. L’evoluzione rapida e l’ottima capacità di adattamento hanno fatto sì che gran parte dei patogeni emergenti negli ultimi anni siano virus a RNA. L’inevitabile passo successivo per tali virus è stato quello delle zoonosi, termine che identifica le malattie infettive in grado di compiere il salto di specie dall’animale all’uomo.

Penso sia superfluo, a questo punto, specificare a quale categoria appartenga il Coronavirus…


Lascia un commento