Long Covid – Parte 1: di cosa parliamo? Presentazione clinica e ipotesi fisiopatologiche

Ricerca e scienza, Salute

Il 12 marzo 2020, dopo 20.000 casi confermati e una stima di circa 1.000 morti in Europa, l’infezione virale da SARS-CoV-2 è stata dichiarata pandemica dall’OMS.
Attualmente, a distanza di 2 anni da quella data, i numeri spiegano meglio di qualsiasi altro dato l’impatto che la pandemia ha rivestito a livello globale in questi 24 mesi. I casi accertati di Covid nel mondo da fine 2019 risultano pari a 460 milioni, con i decessi che hanno superato recentemente i 6 milioni. Dati che conosciamo ormai fin troppo bene, visto lo spazio mediatico (probabilmente eccessivo) dedicato loro quotidianamente dai vari mezzi d’informazione e divulgazione, nazionali e internazionali.

Nonostante le difficoltà legate alla situazione emergenziale vissuta nell’ultimo periodo, i numeri attuali sembrano suggerire un progressivo ritorno alla normalità, con la fase pandemica acuta ormai prossima ad una graduale regressione verso uno stato endemico. Tuttavia, pur essendo riusciti, più o meno efficacemente, a tamponare la diffusione del virus e a gestire le complicanze associate all’infezione acuta, è chiaro ormai che lo spettro del Covid e le sue ripercussioni sul nostro stato di salute ci accompagneranno ancora a lungo. Gli effetti devastanti, sia a livello
sanitario che socio-economico, che hanno contraddistinto la diffusione e l’infezione da Covid sembrano infatti perpetuarsi con la persistenza di sintomi a lungo termine e l’esacerbazione di problematiche croniche. Problematiche che rappresentano una sfida socio-sanitaria (l’ennesima) particolarmente rilevante, non solo per la comunità scientifica, ma anche e soprattutto per il paziente, vincolato a dover convivere con un corpo che fatica a sentire suo e a gestire sintomi spesso invalidanti e in grado di limitare in maniera significativa la qualità della vita e la sua quotidianità. Si tratta di una sfida che coinvolge chiaramente anche la nostra comunità osteopatica, chiamata spesso a dover far fronte a tutta quella serie di sintomi che rientrano nell’ampia categoria dei MUS (Medically Unexplained Symptoms) e che sembrano contraddistinguere la fase post-acuta dell’infezione da Covid.

Manifestazioni cliniche: come riconoscere la sindrome da Long-Covid

Questa fase, classificata il 6 ottobre 2021 dall’OMS come “condizione post Covid-19”, viene ora identificata comunemente con il termine “Long Covid”. Nello specifico, il “Post-Acute Covid” si riferisce alla persistenza dei sintomi oltre le 3 settimane dall’infezione acuta, mentre con “Chronic Covid” viene descritto il quadro sintomatologico successivo alla 12° settimana dall’infezione.

Figura 1. Classificazione del Long Covid

Al di là della terminologia utilizzata, parliamo di una sindrome, quindi un insieme di segni e sintomi clinici, di tipo continuativo o recidivante remittente (in cui si alternano periodi di risoluzione temporanea dei sintomi a fasi di riacutizzazione), caratterizzata da manifestazioni sovrapponibili a quelle della fase acuta o dalla comparsa di nuovi sintomi. Quest’ultimi sembrano presentarsi sotto forma di pattern sintomatologici ben definiti, classificabili in 2 sottogruppi principali: il primo comprende sintomi quali fatica, cefalea e disturbi respiratori, mentre il secondo includerebbe febbre, sintomi gastro-intestinali e disturbi multi-sistemici. Altri autori propongono invece una classificazione alternativa del long covid, caratterizzata da 3 differenti sottoclassi:

  1. Sindrome cardio-respiratoria post-covid
  2. Sindrome da fatica post-covid
  3. Sindrome neuro-psichiatrica post-covid

Indipendentemente dai singoli pattern con cui può manifestarsi il disturbo, i sintomi riferiti con maggiore frequenza comprendono astenia/fatica cronica e debolezza muscolare (58% dei guariti), accompagnati solitamente da cefalea (44%), dolori muscolo-scheletrici (19%), brain fog (“nebbia cerebrale” – sensazione di confusione e smarrimento, difficoltà di concentrazione e memoria) (27%), dolore toracico (16%), dispnea (24%), nausea (16%) e intolleranza all’esercizio fisico.

In Italia in particolare, il 35% dei pazienti con diagnosi di Covid mostra la persistenza di uno o più sintomi nei mesi successivi all’infezione acuta, mentre tra i soggetti ricoverati la percentuale sale all’87% a distanza di 60 giorni dall’infezione, con il 55% di quest’ultimi che riferisce la presenza di 3 o più sintomi.


Figura 2. Effetti a lungo-termine del COVID-19
Immagine tratta da Lopez-Leon S. et al. (2021) More than 50 Long-term effects of COVID-19: a systematic review and meta-analysis

Particolarmente frequenti tra i soggetti con Long-Covid sono anche i disturbi del sonno, che tendono a manifestarsi con difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni ripetuti o con una marcata spossatezza al risveglio. La portata di tali disturbi è tale che secondo un recente studio retrospettivo su pazienti Covid, la terapia farmacologica prescritta per la gestione delle problematiche del sonno è risultata essere la più richiesta dopo quelle relative a febbre, tosse e rinorrea.

Preoccupanti infine sono i sintomi riguardanti la salute mentale, con un numero sempre crescente di soggetti che tendono a sviluppare disturbi d’ansia, depressione e disturbi post-traumatici da stress nei 6-12 mesi successivi all’infezione, manifestazioni senza dubbio esacerbate dalla quarantena e dal distanziamento sociale vissuti durante i primi mesi di pandemia.

Ipotesi fisiopatologiche: disautonomia neurovegetativa e trigger virale

Seppur accompagnata da un’ampia gamma di possibili sintomi, la fatica, intesa non come una semplice sensazione di stanchezza ma piuttosto come uno stato di esaurimento psicofisico costante in grado di limitare l’attività, la concentrazione e la motivazione di chi ne è soggetto, sembra comunque rappresentare la manifestazione più comune della sindrome da Long Covid. I dati infatti parlano chiaro: a 10 settimane di distanza dall’infezione, più del 50% dei pazienti riferisce astenia, diagnosticata successivamente come sindrome da fatica cronica una volta superati i 6 mesi.

L’elevata frequenza con cui questa si presenta nei mesi successivi alla fase infettiva acuta tuttavia non sembra rappresentare una manifestazione esclusiva della sindrome da Long Covid. Gli studi effettuati in seguito all’epidemia di SARS del 2003 mostrano come più del 40% dei soggetti risultati positivi al SARS-CoV presentassero astenia e stanchezza cronica, anche a distanza di anni dall’infezione. E’ chiaro quindi come il Long Covid vada inquadrato e analizzato quale espressione aspecifica di una più generica sindrome da stanchezza post-virale, caratterizzata solitamente dall’emergere di uno o più sintomi vaghi e aspecifici (MUS) esacerbati da uno stressor di natura infettiva virale. Secondo alcuni autori sarebbe particolarmente importante sottolineare come questi MUS, che presentano una corrispondenza pari a circa il 98% rispetto ai sintomi caratterizzanti il Long Covid, non vengano in realtà determinati dall’infezione, ma rappresentino piuttosto la manifestazione somatica di uno stato di sovraccarico allostatico e di un’attivazione cronica degli assi neuroendocrini dello stress già presenti nell’individuo. Un sovraccarico caratterizzato da disautonomia e alterazione della composizione corporea, fenomeni mediati principalmente da meccanismi parafisiologici quali l’infiammazione cronica silente e la sensitizzazione centrale, tipicamente responsabili dell’ampia categoria di sindromi somatiche funzionali alla base dei MUS. Il fattore infettivo virale non rappresenterebbe quindi un elemento causativo, quanto piuttosto una componente stressogena potenziante uno stato di alterata fisiologia già presente a livello subclinico nell’organismo.

L’analisi dei fattori di rischio per lo sviluppo del Long Covid sembra infatti sostenere tale ipotesi. Mentre sesso femminile, età (35-69 aa) e contesti socio-economici difficoltosi si associano positivamente allo sviluppo della sindrome, fattori quali la severità dell’infezione acuta e l’eventuale ricovero in terapia intensiva non rappresentano elementi di rischio significativi per l’evoluzione dei sintomi da Long Covid, con i soggetti ospedalizzati che mostrano tassi di incidenza simili ai pazienti andati incontro a infezioni lievi o moderate. Al contrario, come abbiamo già sottolineato precedentemente, sarebbero proprio i MUS e la loro eventuale presenza nella fase precedente all’infezione a evidenziare una correlazione significativa con lo sviluppo del Long Covid, mentre risulta decisamente inferiore l’incidenza della sindrome tra i soggetti senza sintomi vaghi e aspecifici precedentemente al Covid. Lo stesso principio può essere esteso anche al vaccino, con i soggetti presentanti disautonomia e infiammazione cronica subclinica che tendono a mostrare risposte avverse lievi o un’esacerbazione dei sintomi maggiore rispetto a quelli “sani”. Ciò sarebbe dovuto al fisiologico effetto stressogeno indotto dal vaccino a livello immunitario, a cui alcuni individui rispondono negativamente in virtù di una ridotta capacità di adattamento allo stress.

Oltre a incidere sullo sviluppo del “Chronic Covid”, la disautonomia neurovegetativa e lo stato di infiammazione cronica silente responsabili dei MUS sembrano in grado di fornire informazioni rilevanti anche per ciò che riguarda la fase infettiva acuta.

Studi recenti mostrano infatti come alcuni parametri della variabilità cardiaca, utilizzata come elemento diagnostico per la valutazione del bilancio simpatovagale, siano in grado di predire la presenza di complicanze future e la mortalità dei pazienti con infezione acuta da SARS-CoV-2. In un campione di pazienti con età superiore ai 70 aa, valori di HRV (Heart Rate Variability) superiori a 8 sono risultati correlati ad un possibilità 3 volte più alta di sopravvivere nelle prime 3 settimane dopo l’ospedalizzazione. Al contrario, valori particolarmente ridotti di SDNN (parametro relativo al dominio di tempo – deviazione standard intervalli NN) dovuti a ipersimpaticotonia hanno mostrato un’associazione con il tasso di mortalità in pazienti Covid ricoverati nelle unità di terapia intensiva. E’ estremamente interessante notare quindi come, nonostante l’età si associ ad una riduzione dell’HRV e rappresenti uno dei fattori prognostici principali, questa mostri una correlazione positiva con la mortalità da Covid esclusivamente nei pazienti con HRV particolarmente ridotti, in cui viene meno l’effetto protettivo del sistema colinergico vagale, mentre i soggetti anziani con buoni livelli di variabilità cardiaca vanno incontro ad un decorso favorevole in seguito all’infezione e all’eventuale ricovero.

Gli studi recenti suggeriscono pertanto la possibilità di un ruolo protettivo da parte del sistema anti-infiammatorio vagale, non soltanto per ciò che riguarda la fase acuta dell’infezione, ma anche rispetto allo sviluppo di sindromi post-virali croniche quali il Long Covid. Nello specifico, la ridotta attivazione colinergica potrebbe predisporre ad una disregolazione della risposta immunitaria, responsabile sia della tempesta citochina osservata in fase acuta che dello stato di infiammazione cronica silente associato allo sviluppo dei disturbi cronici.

Ed è proprio all’interno di un tale contesto di cronicità che l’approccio salutogenico e paziente-centrico tipico della medicina osteopatica diviene particolarmente indicato, a maggior ragione se inserito in un approccio terapeutico integrato volto a individuare e normalizzare i possibili fattori disfunzionali responsabili dello stato di sovraccarico. La letteratura scientifica degli ultimi anni ha evidenziato chiaramente, e continua tutt’ora a farlo, come il trattamento osteopatico sia in grado di dialogare e indurre modificazioni rispetto a parametri quali l’HRV e la regolazione dei meccanismi infiammatori, con conseguenti benefici terapeutici relativi non solo al dolore, ma anche a disturbi sistemici e di natura psico-emotiva quali la stanchezza cronica, i disturbi d’ansia e le sindromi depressive.

E’ innegabile quindi come l’osteopatia possa rappresentare un’opportunità terapeutica fondamentale per l’intera comunità nello scenario sanitario attuale. Questo aspetto tuttavia necessita di un approfondimento ulteriore, e cercheremo di indagarlo dettagliatamente nella seconda parte dell’articolo!

Riferimenti Bibliografici:

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  • 9 The Lancet (2021) Understanding long COVID: a modern medical challenge. The Lancet; 398(10302):725.

Sono laureato in Scienze motorie, Sportive e della Salute e diplomato con lode in Osteopatia presso AbeOS Osteopathy School. Lavoro come osteopata iscritto al R.O.I. presso uno studio privato a Porto Potenza Picena (MC) e collaboro con AbeOS in qualità di Head Department del Dipartimento di Ricerca, assistente di osteopatia strutturale, membro del Team GAS e osteopata della Nazionale di Canottaggio della Romania.


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